La posta di Schrödinger Sp10
Perché faccio (ancora) il ricercatore, e perché a volte non mi basta
Il 21 Gennaio 2015 ho preso il primo di tanti aerei per Barcellona.
Era la prima volta che andavo a vivere fuori casa. E anche la prima che mi trasferivo all’estero.
Avrei iniziato un dottorato in fisica in un istituto di ricerca che si trovava in un paesino fuori Barcellona, di cui sapevo quasi nulla, a parte quel poco che avevo capito avendolo visitato per un paio di giorni appena un mese prima.
Se me lo chiedete, ancora adesso vi direi che non è stato un inizio di quelli che fanno ben sperare. Lo sentivo molto come un salto nel buio.
Mi ricordo distintamente di aver pensato, mentre l’aereo decollava: “Nessuno ti obbliga a finirlo, il dottorato. Male che va, fra un paio di mesi te ne torni indietro, e cambi strada.”
Sono passati poco più di sette anni da quel volo. E di cose ne sono cambiate molte.
Ma una è rimasta la stessa: faccio ancora il ricercatore.
E spesso, mi ritrovo a chiedermi onestamente perché.
Non mi sentirei di difendere la vita di ricerca a spada tratta. Tutt’altro. Di momenti brutti, in questi anni, ce ne sono stati vari. Come tutti i lavori, direi anche. E come tutti i lavori, credo che ci siano molti aspetti positivi e negativi legati al fare ricerca. Credo che la riposta più semplice alla domanda che mi faccio - e forse anche la più onesta - sia che, almeno per ora, gli aspetti positivi per me superano quelli negativi.
In questo episodio speciale della newsletter, per festeggiare la prima cifra tonda, ho pensato di parlare di vita di ricerca e condividere con voi alcuni degli aspetti che mi sembrano più importanti.
Sarà una cosa molto personale e per nulla oggettiva. Quello che sembra insopportabile per qualcun@, per altrə è poco più di una sciocchezza.
E non ho nessuna ambizione di completezza in questa lista. Né di generalità (difficile poter parlare di cose che si applicano a tutti gli ambiti di ricerca). Neanche di ordine logico, se è per questo. Sarà un pò una raccolta sparsa di considerazioni. Magari risuonerete con qualcuna delle mie riflessioni, magari penserete l’esatto opposto. Accolgo qualunque commento con piacere.
Cominciamo :)
Orari di lavoro
Una cosa che non avevo considerato molto prima di iniziare il dottorato, è quanto possa essere flessibile la giornata tipo nel mondo della ricerca.
Il mio è probabilmente uno dei casi più estremi: lavoro in ambito teorico, non ho a che fare con nessun laboratorio o esperimento da gestire, e le uniche cose che mi servono per andare avanti sono una connessione internet, carta e penna (o, ormai, tablet e pennino) e un computer.
Questo contesto fa sì che spesso non ci siano molte indicazioni su che orario di lavoro seguire. O, anche se ci sono a livello formale, non vengono particolarmente imposte.
(Piccolo inciso: molto di tutto questo dipende anche dalle livello di controllo che decide di attuare il proprio supervisor, o il capo del gruppo di ricerca, o l’istituto/università. Però posso dire che, almeno nella mia esperienza e nella mia bolla teorica, avere degli orari fissi e imposti dall’alto è più l’eccezione che la regola.)
A livello personale, questa grande flessibilità di orario è uno dei vantaggi del fare ricerca. Credo che sia anche molto in linea con il tipo di lavoro che viene richiesto: c’è molto di riflessivo e creativo, a cui non si può facilmente dare un orario fisso.
E infatti mi è capitato spesso che ci siano stati periodi di lavoro più leggero e fasi più intense in cui lavoravo a ritmo serrato per chiudere un qualche progetto o scrivere un articolo scientifico.
Paradossalmente, direi che l’altra faccia della medaglia di questa flessibilità è proprio il rischio grosso di burnout. Di fare troppo, in pratica. So che può sembrare strano, ma il non avere un orario fisso ha come conseguenza più probabile che, in media, un(a) ricercatore/ricercatrice lavori più delle 35-40 ore settimanali standard.
Io per ora ho trovato il mio equilibrio nel provare a lavorare ogni giorno, nel limite del possibile, un numero di ore fisse. Quindi sfrutto la flessibilità nel decidere quali ore della giornata dedicare al lavoro, ma cerco di non avere una settimana a fisarmonica, cioè con giorni in cui non lavoro per niente e altri in cui lavoro tanto. Tutto questo è spesso una tendenza generale più che una regola fissa, e le eccezioni ci sono sempre.
La componente sociale
Una delle classiche eccezioni sono le conferenze e le visite di ricerca. Infatti, un’altra grande parte del lavoro di ricerca è quella collaborativa e di condivisione.
In periodi pre-Covid a me è capitato di essere in viaggio anche per una settimana al mese, in media. Spesso si va a conferenze, dove si incontrano altri colleghi e si danno seminari per presentare i propri risultati. Una cosa che capita anche molto, almeno nel mio ambito, è di andare in visita in un altro gruppo di ricerca. Di solito perché si vuole iniziare o continuare una collaborazione su un dato progetto.
Fare ricerca - almeno nel mio campo - è l’opposto di un lavoro solitario, anche se spesso non viene dipinto così nell’immaginario comune. C’è una grandissima componente sociale, in primo luogo all’interno del proprio gruppo di ricerca. Di tutti i progetti su cui ho lavorato e lavoro, non c’è n’è uno che abbia portato avanti interamente da solo. Di solito ci sono un altro paio di persone coinvolte e ci si divide il lavoro. Ma sopratutto, ci si incontra regolarmente per fare il punto della situazione e discutere su come proseguire. A me questo tipo di meeting prendono tranquillamente un quarto della giornata lavorativa. Con un altro quarto occupato da altri seminari interni, in cui un membro del gruppo a turno presenta il proprio lavoro, oppure si analizza insieme qualche articolo scientifico che troviamo interessante.
Questo è uno degli aspetti che trovo più appassionante del lavoro che faccio. Condividere e pensare insieme. Certo, ci vuole anche del tempo da solə, ma spesso è parlandone insieme che vengono fuori gli spunti più interessanti.
Poi c’è la componente sociale al di fuori del proprio gruppo di ricerca. Conferenze e workshop di vario tipo, dove si interagisce e si conoscono sempre molte persone nuove. Il clima della conferenza, se organizzata bene, è sempre un’atmosfera particolare, perché si sta tuttə in una sorta di bolla senza tempo. Chiusə nello stesso luogo, spesso alloggiatə negli stessi alberghi, a discutere e parlare ben oltre il classico orario scandito dai seminari.
L’altra cosa carina è che, nel mio caso, la comunità di ricerca di cui faccio parte non è molto grande. Col passare degli anni le persone che si incontrano alle conferenze cominciano a ripetersi. E a volte sembra di far parte di una grande famiglia di appassionatə delle stesse cose strampalate.
Noia VS Frustrazione
Io ho l’impressione di essere una persona che si annoia facilmente.
A volte lo trovo un grosso limite, perché devo costantemente cercare stimoli nuovi e originali. Le cose ripetute ci mettono poco a stufarmi.
In questo, fare ricerca mi aiuta molto, perché è una costante fonte di idee nuove e originali. Per avere un progetto di ricerca di successo, bisogna per definizione fare qualcosa che vada oltre quello che già si conosce. E quindi ogni giorno per me è come una piccola iniezione di adrenalina da scoperta.
Tanto se ti annoi, c’è sempre qualcosa di nuovo da fare. Puoi leggerti quell’articolo scientifico che ti sembrava interessante e utile. O provare a fare quel calcolo che avevi in testa da tanto tempo, per vedere che esce fuori.
Poi per carità, ci sono anche attività ripetitive e molto noiose. In ordine crescente di noia, per me:
scrivere un articolo scientifico,
rispondere alla peer review di un articolo,
rifare i propri calcoli e/o simulazioni numeriche infinite volte per verificare se c’è un errore,
scrivere un progetto di ricerca per ricevere dei fondi (su questo poi ci torno).
(Nuovo inciso: anche su questo tema, credo che ci siano molte differenze fra i campi di ricerca. E soprattutto tra ricerca teorica e sperimentale. Se hai da mettere in piedi un esperimento, è possibile che ti ritrovi a fare cose molto simili per mesi, se non peggio.)
Insomma, fra alti e bassi, trovo che il lavoro di ricerca sia particolarmente stimolante. In qualche modo, è una costante sfida mentale contro sé stessi. E anche un essere eternamente studente, perché non si finisce mai di imparare cose nuove.
Sono cosciente che questi due aspetti non siano necessariamente positivi per tuttə. Io stesso ogni tanto vorrei avere un lavoro che consumi meno energia mentale. Ma poi credo che probabilmente mi annoierei molto rapidamente.
L’altra faccia della medaglia è che lavorare sempre al limite del conosciuto porta una grande frustrazione. La mia giornata tipo è costellata di fallimenti: cose che ho provato e non funzionano, articoli scientifici che ancora non ho capito a sufficienza, idee la cui implementazione pensavo richiedesse un paio d’ore e invece sono giorni che ci sto dietro. Anche perché, in ambito di ricerca, basta un piccolo successo per definire una scoperta. E fortunatamente, anche a livello emotivo, qualcosa che funziona vale più di mille insuccessi.
Però direi che un sentimento di base delle mie giornate è decisamente la frustrazione. Intervallata con picchi di estrema euforia, quando arriva un piccolo risultato positivo.
Credo che questo aspetto sia quello su cui ho dovuto e devo lavorare di più, per poterlo gestire. È molto facile cadere in un loop negativo. Tornare a casa e pensare: “ma che ho combinato di buono oggi?”. Una grossa risorsa, per me, è compensare con il resto delle attività durante la giornata. Di solito cerco di riempire il tempo libero di cose che richiedono maggiore sforzo fisico, e che possano dare piccole soddisfazioni a breve termine: tipo fare sport o imparare a suonare la chitarra.
L’altro strumento compensativo che ho trovato, è scandire le giornate in termini di orario, anziché in termini di risultati. Ho eliminato le to-do-list giornaliere, perché finivo per vederle come liste di cose che non riuscivo a portare a termine. Cerco di fare in modo di non giudicare la giornata in base ai risultati ottenuti, ma solo come: anche oggi hai lavorato X ore.
Tutto il mondo è ricerca
Altro aspetto che ha impattato sulla mia vita più di quello che pensassi è la componente internazionale del mondo della ricerca.
Nel gruppo dove ho fatto il dottorato a Barellona, delle circa trenta persone che ne facevano parte, il numero di quelle spagnole si contava sulle dita di una mano. Poi c’erano italianə, tedeschə, francesə, polacchə, ungheresə, taiwanesə, iranianə,…
Il primo giorno di lavoro mi sono sentito abbastanza limitato a livello comunicativo. Avevo, come tuttə, studiato inglese a scuola. E anche fatto dei corsi aggiuntivi. All’università, molti testi che usavamo erano in inglese. Per conto mio avevo anche iniziato a leggere libri in inglese e guardare serie tv in lingua originale. Ma dover comunicare costantemente in un’altra lingua era decisamente più di quello che fossi abituato a fare.
È sorprendente la velocità con cui ci si abitui, però. Fatto quel salto, poi è stata la volta dello spagnolo, per integrasi un pò meglio nel paese in cui vivevo. Anche un po’ di catalano, tanto per gradire. Ora che sono a Monaco, mi tocca fare a cazzotti con il tedesco. Me l’aveste chiesto dieci anni fa, vi avrei detto che imparare le altre lingue mi annoiava, e mi sentivo abbastanza negato. Adesso è una della attività che mi appassiona di più. Poche cose, secondo me, valgono di più del senso di soddisfazione nel riuscire a comunicare in una nuova lingua, così come il senso di integrazione culturale che ne consegue.
E tutto questo lo classificherei semplicemente come effetto collaterale dell’aver deciso di fare un percorso di ricerca. In un attimo, ti ritrovi a cambiare paese per andare a fare il dottorato dove hai vinto la borsa. Finito quello, tocca al primo contratto da post-doc, spesso in un paese diverso dal precedente. E poi magari un altro ancora. Vabbè, avrete capito come funziona. Degli effetti negativi di questo sistema ne parliamo fra un attimo.
Un altro effetto di questa atmosfera internazionale che ho sentito impattare molto su di me è l’enorme apertura verso il diverso che ha generato col tempo. Sono quelle cose di cui ti rendi conto solo quando è troppo tardi: passano i mesi, una mattina ti svegli e ti rendi conto che guardi moltissime cose con occhi diversi. È una cosa che assorbi in maneria molto passiva e spesso senza pensarci molto su. Ma è inevitabile: sei circondado da persone che provengono dai contesti culturali più disparati, che hanno abitudini potenzialmente molto diverse dalle tue. A volte ti sembrano assurde. A volte ti spaventano. Altre volte ti sembrano molto migliori delle tue, e ti convinci ad integrarle nei tuoi comportamenti. Ma il più delle volte, semplicemente le osservi per quello che sono: frutto di tante influenze diverse e non di regole dettate nella pietra. Alla fine di tutto, non puoi che sperare che, nel mezzo di tutte le abitudini che vedi, ognun@ si scelga quelle che sono più consone a lui o lei. E che l@ facciano stare bene.
Ci ho provato, ma come faccio a convincere il mio collega taiwanese che la pasta in bianco, se non ci metti l’olio si incolla e fa schifo? Lui mi dice che gli piace così. Una delle più grandi discussioni con il mio coinquilino montenegrino è partita da una domanda ingenua: “ma la mozzarella è un formaggio?”. Poi ho capito che in inglese, non esiste una così grande differenziazione tra formaggi e latticini. E allora mi sono arreso. Tanto abbiamo convenuto che la mozzarella di bufala è più buona, e apposto così.
Se non bastasse tutto l’insieme di stimoli che viene dal proprio gruppo di ricerca, poi ci si mettono le conferenze. Nel corso degli ultimi anni, molte delle mie prime volte sono avvenute proprio grazie alle conferenze. Primo viaggio in America: workshop a Natal ad Agosto 2017, Brasile. Primo raggiungimento a piedi di una cima di montagna, conferenza a Benasque 2019, Spagna. Niente che non si possa anche fare da solə, ma è inevitabile che il numero di occasioni possibili si moltiplichi. Ed è molto più facile coglierle.
Non tutto di questa storia è rosa e fiori. La ricerca ti offre tantissime possibilità per allagare i tuoi orizzonti. Ma in una situazione in cui sei costantemente bombardato di stimoli nuovi è anche difficile riuscire a mettere radici.
Vi dicevo che nei periodi pre-Covid arrivavo anche a stare in viaggio per una settimana al mese. Fare tutto questo, mentre stai anche tentando di costruirti una quotidianità nel paese in cui ti sei trasferito, è un gioco a perdere. Come fai a intrapendere attività settimanali, se sai che non potrai essere presente la metà delle volte? Per non parlare del ricostruirsi una rete di amicizie, specialmente con persone del luogo che hanno vissuto sempre lì, e il loro gruppo consolidato già ce l’hanno. E infatti finisce spesso che i contatti più stretti corrispondano a quelli lavorativi. Le mie amicizie più grandi a Barcellona corrispondono ai miei colleghi e colleghe di dottorato. Volente o nolente, il mondo della ricerca tende ad essere autorferenziale. Trovarsi qualcosa al di fuori richiede uno sforzo aggiuntivo, che non sempre è facile fare.
In tutto questo, magari tra un inciampo e l’altro, passa qualche anno e il tuo equilibrio lo trovi. Precario e traballante che sia, ma improvvisamente ti senti integrato in questa nuova realtà che ti sei costruito. Quello è spesso il momento in cui ti trovi a traslocare: il tuo contratto di dottorato (o post-doc) è finito, ed è ora di volare verso nuove occasioni.
Una delle sensazioni di impotenza più grande che abbia mai provato è stato arredare casa nelle prime settimane dopo il trasloco a Monaco. Andavo al supermercato e non trovavo quello che cercavo. Era una cosante ricerca su Google di “Dove si compra XYZ in Germania” o “Si usa XYZ a Monaco?”. Ogni cambio di paese vuole dire dover resettare molti auotmatismi e ripartire da capo. Abiutarsi ad una nuova burocrazia, a come gestire le visite mediche, i mezzi di trasporto, fino alle cose più banali tipo capire se i bottoni di ricambio si trovano al supermercato o dal calzolaio.
Ogni medaglia ha due facce. E quello che da un lato è un continuo stimolo all’apertura mentale, se portato all’estremo diventa una giostra di riadattamento continuo che stanca da morire. Ci sono dei momenti in cui mi chiedo quanto sarebbe più facile la vita se non dovessi tradurre sette volte nel mio cervello prima di ordinare una birra al ristorante.
Un contratto (non) è per sempre
E qui arriviamo al tasto più dolente della ricerca. Molta della vita accademica è una corsa a termine. Non esiste contratto a tempo indeterminanto, a meno di diventare capo di un gruppo di ricerca a tua volta. Traguardo che, col passare dei decenni, si raggiunge in età sempre più avanzata.
Ora combinate questa cosa con la parola magica mobilità, vero e proprio mantra della vita da ricerca. Nella sua accezione positiva, vuole dire provare a raccogliere più collaborazioni e stimoli possibili, visitando gruppi di ricerca diversi. È questo il motivo per cui si incoraggia molto il fare post-doc in un gruppo diverso da dove si è fatto il dottorato. E magari cambiare ancora, dopo qualche anno di post-doc, e spostarsi in un gruppo diverso ancora. Tutto questo non è solo vero a parole, ma si riflette nelle opportunità di finanziamento che sono disponibili. Molte delle borse per cui ho fatto domanda avevano come condizione necessaria il non avere vissuto per più di sei mesi nel paese dove si voleva vincere la borsa. Questo significa che, una volta trasferitisi in un paese, le opportunità che si hanno per rimanere si assottigliano molto.
E quindi ecco che la vita di ricerca diventa facilmente una giostra di traslochi incontrollati. Quattro anni di dottorato a Barcellona. Due anni di post-doc a Monaco. Poi magari hai la fortuna di vincere una borsa ed estendere la tua permanenza a Monaco di altri due anni. Ma poi, se vuoi continuare a fare ricerca, è arrivato il momento di fare le valige e andare altrove.
Per carità, sono il primo a dire che il contratto a tempo indeterminato non è la panacea di tutti i mali. Ma nel mondo della ricerca si sono uniti un insieme di fattori tali per cui avere stabilità, anche solo a livello geografico, è praticamente impossibile. Almeno per i primi 7-10 anni della propria vita lavorativa.
Unite tutto questo all’enorme competitività del campo ed avete una miscela esplosiva di senso di inadeguatezza e precarietà continuo. Considerate che, in Germania, il 77% dei post-doc ha contratti a tempo determinato. In Francia, il rapporto tra nuove posizioni di dottorato offerte e nuovi posti permanenti a livello accademico è 10:1 (se volete altri dati, li trovate qui).
Questo vi fa capire che non sono in moltə a poter fare ricerca per sempre. Tuttə lə altrə devono trovare qualche altra strada. Che per carità, non è necessariamente male. Ma per come è strutturato il sistema delle borse di ricerca, diventa un vero stillicidio. Molti dei contratti da post-doc durano due anni. Con picchi fortunati di tre-cinque anni e casi patologici di uno. E ogni borsa richiede di dover scrivere il proprio curriculum in un certo modo. Proprorre un progetto di ricerca che sia allo stesso tempo estremamente originale, realistico e di grande impatto per il futuro della società. Visto che le percentuali dicono che il numero di posti disponibili è molto inferiore alla domanda, vuol dire che la maggioranza delle borse per cui si fa domanda non verrano vinte. Con corrispondenti pensieri “Forse quello che faccio non ha abbastanza senso. O forse non sono abbastanza competente”.
Di nuovo, niente che non sia normale anche in altri contesti. È importante anche imparare a gestire gli insuccessi. Ma se il modo stesso in cui è strutturato il sistema è tale per cui passi una grande fetta di tempo a fare domanda per borse che per la maggior parte non vincerai, la quantità di pressione negativa che ti arriva addosso è un attimo sproporzionata. Specialmente considerato che la ricerca è un lavoro che, come vi raccontavo prima, non ti dà grandi soddisfazioni quotidiane.
Tentativo di conclusione
Con questa sequela disordinata di pensieri, spero di aver fatto passare l’idea di quanto la mia idea della vita di ricerca non sia bianca o nera.
Come dicevo all’inizio, ci sono aspetti positivi e negativi. Alcuni dei positivi sono molto positivi. Alcuni dei negativi sono molto negativi. Ma la maggior parte sono dei grigi, in cui positivo e negativo sono spesso due facce della stessa medaglia.
Io per ora sopravvivo usando molti metodi compensativi. Delle cose che più mi turbano del fare ricerca, cerco di trovare qualche sistema per controbilanciarle. Non credo di essere arrivato alla soluzione ottimale, ma per il momento mi sento abbastanza in equilibrio.
E una grande componente che mi fa andare avanti è che, nella maggior parte delle giornate, mi alzo con la voglia di andare a lavorare. Non credo sia cosa da poco.
Il grande dubbio che mi rimane è quando e come capirò se è ora di smettere di provare a passare ad altro. Qual è il numero di occasioni mancate, di borse non vinte, di progetti non finanziati, che ti fa capire che questa strada non fa per te? Che forse potresti trovare altro, che possa essere fonte di altrettante soddisfazioni, e magari di meno frustrazioni giornaliere? A questa domanda non so rispondere, ma è un fattore che continuo a monitorare costantemente.
Spero però che si sia capito che molte delle cose della vita di ricerca mi appassionano un sacco. Così tanto che ho deciso di dedicare sempre più tempo a raccontarle al di fuori del mondo accademico. Come qui e sulla pagina Instagram che gestisco da qualche anno. Chissà che questa non rimarrà sempre una componente di quello che faccio, indipendentemente dal mio proseguire nella carriera di ricerca.
E con questo passo e chiudo per questo decimo episodio della newsletter. Spero che il tema speciale vi sia piaciuto e vi abbia stimolato una sana dose di curiosità. Visto l’argomento particolarmente personale e complicato, vi invito a non trattenere riflessioni e domande. Avete avuto esperienze simili, facendo ricerca o altro? Vi siete datə risposte diverse dalle mie? C’è qualche aspetto che credete abbiamo lasciato fuori e meriterrebbe di essere analizzato? Commentate qui
o scrivetemi in privato se avete domande/commenti/qualunque cosa. Sono sempre felice di leggervi e rispondervi.
Nel frattempo, noi ci rileggiamo fra tre settimane. Nel mezzo mi faccio una pausa settimana bianca. E poi si riparte, con una puntata dedicata interamente al tema che mi piace di più dell’informazione quantistica.
A presto!
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